Bagaglio a mano - Racconto
BAGAGLIO A MANO
Oscurità.
Solo, esclusivamente ed interamente oscurità. Un sibilo elettromeccanico a spezzare la monotonia del nero. Vibrazioni che seguono di pari passo l’inconfondibile rombo di un motore. Voci lontane, ovattate, da direzioni indefinibili, accompagnate dall’inconfondibile rollio della curva.
“Mi sto muovendo”, pensò l’uomo.
***
Giacca, cravatta, capelli dalla pettinatura impeccabile. Scarpa elegante in pelle, fascicolo alla mano e occhio sempre fisso sull’orologio, la lancetta dei secondi a scandire i passi riecheggianti nel corridoio. Sempre troppo lenti rispetto la lancetta.
Bussò. Varcò la soglia senza prendersi la briga di aspettare risposta. L’orologio sempre davanti agli occhi.
«Dica pure, già che è entrato». L’accoglienza del minuto omuncolo sprofondato nella poltroncina al centro della stanza.
«Onorevole, perdonatemi» affannato il funzionario, «ma forse abbiamo ancora tempo» fissando sempre l’orologio.
L’ometto annuì.
«Prego, si sieda» sporgendosi da dietro le pile di carte accumulate sulla scrivania. Sorridendo amabilmente, l’ometto tornò ad infossarsi nella poltroncina congiungendo le mani in un nodoso intreccio di rughe.
«E che cos’ha lì? Da essere così tanto impaziente». L’occhio porcino si animava languidamente dietro i sottili occhiali rettangolari.
«Onorevole, l’abbiamo trovato».
***
Infinito. Questo era l’unico modo con cui avrebbe potuto descrivere quel tempo.
Un infinito, interminabile, smisurato lasso di tempo trascorso nell’oscurità, sballottato a destra e manca ad ogni curva, spinto e schiacciato ad ogni frenata e successiva accelerata. Maltrattato nel fisico e nell’anima, declassato e legato.
Impacchettato.
***
«Perché non si siede, e mi da quelle carte?» propose l’ometto, distendendo la mano.
Il funzionario esitò, ricordandosi poi del fascicolo e allungandolo nell’incerta mano dell’ometto.
«Signore, non c’è tempo da perdere! Conosciamo l’indirizzo, sappiamo che lo stanno spostando in questo momento».
L’ometto annuì pacatamente. Sempre sorridente indicò brevemente la sedia. Il funzionario ubbidì. Si sedette controllando nuovamente l’orologio.
«Diramate subito l’ordine» il funzionario, sporgendosi sulla scrivania, «siamo ancora in tempo!» sbiadendo in un concitato bisbiglio.
«Sappiamo quali sono le possibili destinazioni» aggiunse, incalzando l’ometto.
«Sto vedendo, sì» rispose amabilmente l’ometto, alzando brevemente lo sguardo, «sto leggendo» rituffando il naso fra le carte.
Il funzionario volse ancora gli occhi alle lancette da polso.
L’ometto emise un flebile mugolio di approvazione, annuendo fra i fogli.
«Molto bene, sì» sentenzio infine, «davvero molto bene. Ottimo lavoro».
***
Ennesimo rallentamento. Svolta, accelerata, più breve delle precedenti. Piccola sbandata. Scaraventamento sul fondo. Frenata insolitamente brusca.
“Siamo fermi” fu il pensiero dell’uomo.
«Buona sera…» una voce austera, forse fuori dal veicolo.
«Favorisca…» un’altra parola carpita dai dialoghi ovattati, pronunciata in tono autoritario, deciso.
“Che siano forse?” pensò nell’oscurità.
«Agente…» un’altra parola carpita, da dentro il veicolo questa volta.
“Agente!” gridò nella propria mente l’uomo. Provò anche a gridare, ma qualcosa glielo impediva. Provò a muoversi, ma le legature erano troppo strette, arti e tronco legati assieme.
Il rumore di uno sportello giunse all’uomo.
“Sono salvo!” urlò nella propria mente, gli occhi gonfi dalle lacrime perse nell’oscurità.
***
«Queste qui» disse l’ometto, «restano qui, con me» posando il fascicolo sulla scrivania, ben chiuso e la nodosa mano a picchiettarvi sopra.
Il funzionario, interdetto, sbatté le palpebre confuso, ritraendosi dalla scrivania.
«Ma signore, non abbiamo molto tempo. Se date adesso l’ordine, possiamo isolare le zone e fermare ogni auto, abbiamo gli indirizzi, irrompere simultaneamente in tutti e tre gli appartamenti».
L’ometto sollevò un grumo di rughe, invitando il funzionario alla calma.
Il funzionario tacque, osservando perplesso l’ometto. Lo vedeva sorridere amabilmente, come sempre.
«Non dobbiamo intervenire, capisce?» lo sguardo sempre compiacentemente amabile, dietro gli occhialetti rettangolari.
«E non dobbiamo fare niente?» domandò il funzionario.
«Ma noi non stiamo mica facendo niente, stiamo agendo invece. Stiamo dando adito agli eventi. Mi capisce?»
Il funzionario scosse il capo lentamente, in segno di diniego.
«Questa, trattasi di azione necessaria». L’ometto parlava pacatamente, le mani nuovamente annodate fra loro, il sorriso mai svanito e l’occhietto trasudante certezze da dietro l’occhiale.
«Mi segue ora? Noi stiamo agendo con la decisione e la risolutezza certa di permettere agli eventi una chiara e lineare manifestazione di loro stessi».
«E la giustizia?» esitò il funzionario, «il popolo chiede a gran voce giustizia, dobbiamo tener fede alla legalità che rappresentiamo».
L’ometto scosse lievemente il capo esprimendo un paterno dissenso.
«La giustizia siamo noi, qui dentro, a deciderla e a farla. Io qui sono come il papa, anzi, più che i papi. Loro hanno fatto i loro tempi, adesso siamo noi qui a decidere cosa sia giusto e cosa sbagliato. Scegliamo noi la morale, mi capisce?».
Il funzionario rimase in silenzio, raggelato dagli occhietti vispi e dalla loro sicurezza.
«Il popolo ha bisogno di ciò che noi decidiamo» riprese l’ometto, «per tanto, avrà la sua giustizia, ma non può averla prima. Capirà anche Lei, che non può sussistere una giustizia, se prima non c’è qualcosa su cui far pendere la potente e ferma mano della giustizia. Ed il popolo, adesso, è di un bagaglio morale che ha bisogno, non di giustizia» l’ometto sorrise.
***
Frenata decisa, secca.
Il motore non rombava più, l’automobile non vibrava più.
«Pensavo fossimo fregati quando ti ha chiesto di scendere» una delle voci dall’interno del veicolo, ora più chiara, le parole comprensibili.
«Ero già pronto con l’artiglieria. Fortuna ho sentito ti chiedeva conferma dell’indirizzo sbiadito sul documento, o finiva in miseria questa notte».
«Va a prendere il bagaglio, a proposito di artiglieria», una seconda voce, più cupa, risoluta.
Cigolii di sportelli seguirono le parole. Le sospensioni si sollevarono, libere dal carico precedente.
Lo sportello del bagagliaio si sollevò. Gialle luci dei lampioni ferirono la vista dell’uomo. Due sagome adombrarono nuovamente la vista.
«Non lo portiamo su?».
«No. Hanno detto di lasciarlo qui, davanti al portone. Così dov’è. Prendo l’altra auto, tu sbrigati».
La luce gialla tornò parzialmente a ferire la vista dell’uomo. Troppo stanco per provare a muoversi, troppo stanco per versare altre lacrime.
Un rumore sordo e la luce si spense del tutto.