Cara mamma... - Racconto
Per non lasciarsi andare all’ansia, la donna immaginava suo figlio scriverle lettere accorate, appena romantiche, come quei cavalieri dall’armatura scintillante a cui pensava la notte: dentro di sé, passandosi la mano sul ventre gonfio in preda ai dolori, le piaceva credere sul serio che sarebbe cresciuto per diventare qualcuno del genere. Qualcuno che sapesse come salvarla, amarla, senza riserve.
Solitamente cominciavano tutte più o meno con un semplice «cara madre, sento la tua mancanza. Sappi che ti scrivo da…», poi narravano avventure improbabili e ricche di fantasie: le sue, ossia di Elettra, la trentenne tenuta chiusa in una stanza d’ospedale per il suo bene. Per il benessere della creatura che aveva tenuto per nove lunghi mesi in grembo, la stessa che stava cercando di abbandonarla con tutte le sue forze.
Si era posta così tante domande ed altrettante volte ognuna, sino a sfinirsi. Se si sentisse felice nel percepirne i movimenti, se potesse amarlo incondizionatamente così come esigeva dal nascituro, ma pure mille altri se, però la risposta era sempre un secco diniego. Più ci rifletteva, rendendosi conto che una vita cresceva a sue spese, più la serenità le abbandonava il corpo lasciando spazio ad altro. Ad emozioni crude, efferate, angoscianti.
Nella sua mente vacillarono le incertezze che l’avevano accompagnata per tutto quel tempo: ella sperava sarebbe stato il bambino l’eroe di cui aveva disperato bisogno perché, in realtà, la gravidanza aveva cambiato il flusso di tutta la sua esistenza. E lei la voleva indietro, desiderava tornare come prima di rimanere incinta: si dimenò sofferente mentre l’infermiera tentava di tenerla ferma, calmarla, portarla alla realtà.
«Si vede la testa del mio nipotino!» esclamò sua suocera, guardandole tra le gambe. Per qualche attimo, la partoriente si era dimenticata della sua presenza: forse perché si trattava di una costante invadente della sua vita, tanto da non farci più caso. Magari perché troppo spaventata, Elettra non aveva battuto ciglio nemmeno mentre la futura nonna decideva per lei chi avrebbe assistito al parto, o quali farmaci fosse permesso somministrarle: in sintesi, quando aveva dettato legge su quanto si sarebbe vergognata e quanto avrebbe sofferto.
Tremava all’idea di divenire genitore, di rendere il marito che non amava più un padre: non aveva neanche la certezza che suo figlio sarebbe stato maschio, né tantomeno bello e affascinante come nei suoi sogni, così diverso dall’uomo che l’aveva generato tanto da farlo dubitare della fedeltà… Elettra in quei momenti preferiva non pensare negativamente, come alla possibilità di partorire una femmina, terrorizzata che condividessero lo stesso fato.
Se così non fosse stato e avesse dato alla luce un insuccesso, le sarebbe comunque toccato crescerlo. Tuttavia, doveva ammettere con sé che già nel pensarlo nato, oppure attaccato ai suoi seni così fragile tra le sue braccia, aveva capito che non intendeva assolutamente prendersene cura: sì, poteva fantasticare riguardo un principe azzurro una volta adulto, ma non voleva tediarsi con il crescerlo.
Insegnargli tutto dalle basi, persino come mangiare o pronunciare le parole, era troppo da sopportare: magari poteva non nascere fallimento, eppure aveva timore – anzi, ne era sicura – che l’avrebbe reso tale con la sua incapacità, a causa di tutte le perplessità che l’attanagliavano. Secondo ciò che aveva compreso dalle altre prigioniere della sua condizione, ogni ragazza sogna la maternità, le donne venerano il ruolo di genitrice e le madri amano i loro figli: si disperava nel chiedersi perché non provasse le stesse emozioni, o addirittura, come mai per lei fosse tutto il contrario.
La stanza risuonava di lamenti mentre la donna attraversava il momento cruciale del parto: “Oh Dio, ti prego, no!” riuscì a pensare mentre gridava, per l’ultima volta da Elettra, da donna, prima di trasformarsi in mamma e sentire quel pianto che sanciva la conclusione: era troppo tardi per ripensamenti di ogni sorta, l’aveva dato alla luce. Volendo o meno, come nel suo caso, non poteva più tirarsi indietro. Non giunta a quel punto, o in quella famiglia.
Il dolore straziante l’aveva sopraffatta e stentava a formulare frasi o pensieri di senso compiuto e, così come appariva all’esterno con i capelli annodati e bagnati di sudore, così si rispecchiava all’interno: un tornado di pura confusione, paura.
«Il mio tesoro! Dio, guarda com’è bello» singhiozzò la madre di suo marito prendendo in braccio per prima il fagotto sporco di sangue ed altri liquidi, gioiosa, mentre la trentenne chiuse gli occhi cercando di sfuggire alle incertezze e raccogliersi.
«Cara mamma, vorrei rivederti. Ti scrivo da Roma, dove ho preso casa in centro…» ma l’immagine della missiva non la tranquillizzava più, la lasciava indifferente nel suo tormento: magari aveva bisogno di tempo, di calma, di comprensione. Di supporto.
Prima che Elettra potesse pronunciarsi, la suocera le poggiò il piccolo al petto e le scoprì un seno per permettere al nipote di prendere il latte: mancò di tatto, del suo permesso, del minimo di gentilezza che si dovrebbe riporre nei riguardi di una signora che ha da poco partorito.
Una lettera le apparve, così diversa dal solito che non si chiese se davvero l’avesse posta il bambino che le succhiava il latte. «Cara madre, ti scrivo una domanda. Hai ancora paura?»
“Troppa” gli rispose non riuscendo nemmeno a guardarlo, l’ansia a gravargli il petto come si trattasse del gemello di quel neonato.
Anna Rita
Sono diventata mamma quando avevo 21 anni e come la protagonista di questa storia avevo paura. Paura perché avevamo una situazione economica disastrosa ! Non sapevo se il mio bimbo sarebbe stato un maschietto o una femminuccia , tuttavia, avevo già scelto un nome maschile perché avevo sognato quel bimbo.
Complimenti a questa giovane scrittrice per aver messo in evidenza sentimenti ed emozioni che una madre può provare in un momento così speciale e delicato della vita di una donna.