Layla e Majnun - Racconto
Tre giorni. Tre giorni prima Layla e Majnun erano arrivati a Tristram. Tre giorni di nebbia e di umidità che entrava fin nel profondo delle ossa. Adesso Layla capiva come mai nessuno si fermava a Tristram, e come mai non c’era praticamente nessun anziano in giro per il villaggio. L’umidità e la palude non troppo distante che avevano attraversato qualche giorno prima, avevano favorito il becchino del villaggio nel corso degli anni. Tre giorni di tentativi più o meno pacifici per entrare nel santuario di Mahata Prithvi, ogni volta stroncati dal terreno spaccato da una scossa tellurica, dal portone di legno prima scardinato e poi scaraventato verso di loro, seguito poi dalle panche e, finite quelle, dalla terrasantiera.
“Avrà finito gli oggetti da lanciare, che dici?” chiese a Majnun, silenzioso al suo fianco a qualche metro dall’ingresso del piccolo santuario, con le braccia incrociate e uno sguardo pensieroso verso l’interno buio. Un istante dopo sentì un rumore di qualcosa che veniva rotto, seguito da un sibilo e da metà altare che arrivava verso di loro a tutta velocità. Majnun le si parò davanti, fulmineo, le braccia tese in avanti pronte ad afferrare l’altare di pietra al volo.
“A quanto pare, no. E ha ancora l’altra metà” si rispose, guardando lui che posava a terra mezzo altare come se pesasse quanto un foglio di pergamena. Lo scatto gli aveva fatto cadere il cappuccio sulle spalle, mostrando due moncherini d’avorio tra i corti capelli castani spettinati. I pochi coraggiosi abitanti che si erano spinti fino ai margini del santuario mossi dalla curiosità, adesso mormoravano agitati tra loro. Raakshas, senzacorna, contraente, magi, artefatto erano le parole che Layla sentiva ripetersi più spesso. Più dava retta al brusio di voci, più un senso di fretta e urgenza le assalivano la mente. Più restavano a Tristram, meno possibilità avevano di trovare quello che si era azzardato ad incatenare una magi ad un raakshas.
“È parecchio arrabbiato, direi. E non ha neanche tutti i torti. Non è… divertente, essere incatenati ad un edificio” disse Majnun, riportandola alla realtà
“Prima rompiamo il suo sigillo, meglio è” rispose lei.
“Solito metodo, quindi?” chiese, levandosi il mantello.
“Solito metodo” confermò Layla, levando anche lei il proprio “tu fai casino, e io cerco e cancello i simboli.”
Layla vide lo sguardo di Majnun spostarsi dai suoi occhi verso la mahala, il rosario di perle al legno di sandalo che portava al collo, con la piccola clessidra al centro che chiudeva il cerchio.
“Layla…” iniziò a dire.
“No. Non cominciare. Ti serve il sigillo aperto per tenere occupato quel raakshas là dentro” disse lei, troncando sul nascere qualsiasi protesta da parte sua. Era riluttante, come al solito. Lo vedeva. Teneva i pugni serrati e il respiro accelerato, gli occhi chiusi e la mente impegnata in un conflitto interiore che solo lei poteva sentire distintamente a causa del loro contratto. Tutto quello che lui pensava, lei lo sentiva. Lui poteva prenderle la clessidra, aprire il sigillo dividendo la perla che teneva separate le due estremità, far scivolare tutta la sabbia bianca, la propria vita, nella boccetta di sabbia nera, la sua di raakshas, e poi partire all’inseguimento di quel magi che lo aveva prima comprato e poi incatenato ad un’altra bambina magi trovata chissà dove. Eppure non lo faceva, perché un raakshas, un demone, non poteva muoversi da solo senza un padrone magi, per di più con l’intenzione di ucciderne un altro. Perché un demone senza corna Si sarebbe polverizzato nel giro di qualche giorno, senza nessuno ad alimentare la sua vitacome ormai era lui, non poteva sopravvivere senza un contratto con un umano o un altro magi. usando la propria. Quindi si faceva andar bene il contratto con quella bambina, ormai ragazza, restio a scioglierlo perché vittima quanto lui. E ogni volta che questo conflitto interiore si presentava, lei lo sentiva arrendersi sempre alla stessa soluzione, rallentare il respiro, sciogliere i muscoli, preparandosi a manifestarsi. “Scioglilo” le disse, appena finì di spogliarsi, lasciando gli abiti avvolti nel mantello a mo’ di fagotto “e cerchiamo di fare in fretta”.
Layla allargò appena la perla di legno al centro della clessidra e sciolse il sigillo. La sabbia iniziò a scorrere piano, un granello alla volta, diventando nera appena cadeva nel bulbo sottostante, nella vita di Majnun. Alzando lo sguardo, lo vide scattare verso l’interno del santuario ringhiando, un corpo color fango ma duro come la pietra, mani e piedi artigliati e la coda biforcuta che frustava il terreno. Sentì un ringhio di risposta provenire da dentro e un istante dopo dei tonfi, segno che lo scontro tra i due raakshasa era iniziato. Li raggiunse di corsa. L’interno era un disastro, le poche panche rimaste erano spezzate e scaraventate sui lati e rimaneva la parte dell’altare che non era stata buttata fuori qualche minuto prima, il tetto era crollato per metà ed era rimasta in piedi una sola colonna di pietra. Appena entrata, una piccola scossa le pervase il corpo. Un paio di passi avanti a lei, sul pavimento, era disegnata una runa grande quanto una moneta, una sola linea a spirale, il simbolo dell’acqua. Aveva trovato il sud. Si morse il pollice e con il sangue passò il dito sopra la runa, cancellandola. Sentì il sigillo perdere forza. Sotto una panca spezzata trovò la runa dell’aria, due linee che si intrecciavano, ad est. Con la coda dell’occhio vedeva Majnun graffiare e mordere l’altro raakshas, spostando lo scontro nella zona opposta alla sua. Si spostò a nord, e davanti all’unica colonna rimasta in piedi, trovò il simbolo del fuoco, una linea somigliante ad una fiammella. Cancellò anche quella. Un dolore acuto le salì lungo il braccio, come se avesse mille aghi piantati nelle carni. Sentì Majnun ringhiare di dolore, l’altro lo teneva per il collo schiacciato sopra ciò che restava dell’altare, mentre gli affondava le zanne affilate in un braccio, lo stesso che si stava tenendo. Majnun cercava di liberarsi calciando e cercando di graffiarlo in volto con il braccio sano, ma l’altro raakshas era più massiccio e pesante, oltre ad essere molto infuriato. A poche spanne da loro, vide la runa della terra, un triangolo con la punta verso l’alto simile alla vetta d’un monte. Scattò verso la runa sul pavimento, evitando per un soffio le code dei due raakshasa che frustavano il terreno e l’aria circostante, premette il pollice sulla runa e la cancellò. Sentì il sigillo spezzarsi, l’energia svaniva gradualmente lasciando spazio al nulla. Il raakshas si era staccato da Majnun, guardando prima l’avversario e poi lei. Senza dire una parola fece qualche passo indietro, sprofondando man mano nel terreno fino a svanire. Il dolore acuto al braccio di qualche istante prima, ora era un leggero pizzicore sulla pelle. Vide Majnun posare il palmo sul terreno e attingere al suo elemento naturale curandosi le varie ferite. Richiuse la perla al centro della clessidra, impedendo alla sabbia di cadere. Uscì dal santuario per recuperare il fagotto di vestiti e gli stivali e vide che il sacerdote si stava avvicinando, seguito da un paio di passi dal becchino.
“Non serve prendere le misure, signore. Siamo illesi, mi spiace” disse al secondo che fece spallucce e si fermò, lasciando continuare il sacerdote.
“La ringrazio, Magi” esordì questo “non potevamo più rivolgere le nostre preghiere a Mahata Prithvi da più di una settimana, e…”
“MA A CHI DIAVOLO È SALTATO IN MENTE DI INCATENARE UN RAAKSHAS AD UN SANTUARIO?!?”
Il sacerdote proseguì con aria colpevole “A-avevamo c-chiesto un g-guardiano, e…”
“E che cosa?!? Un raakshas non è un cane da guardia! Cosa pensavate di fare, senza addestramento?!?” sbuffò esasperata.
“Il magi venuto 10 giorni fa ci aveva assicurato che…” “Quale magi?” chiese, fredda.
“Circa dieci giorni fa, è passato un magi” iniziò lui “È rimasto una notte e il mattino successivo, uscendo da Tristram, disse che ci aveva affidato un guardiano. Non sapevamo fosse un raakshas, non avevamo assistito a nessun rituale. Dopo un paio di giorni non siamo più riusciti ad entrare al santuario”.
Un demone legato da un contratto era solitamente in fin di vita, e ci metteva parecchie ore per riprendere un minimo le forze, quindi il racconto del sacerdote era plausibile, rifletté Layla. “Questo magi, aveva segni particolari addosso? Che direzione ha preso poi?” gli chiese.
“Si, ora che ci penso, aveva un tatuaggio sotto l’occhio sinistro. Un ragno, mi pare. Si, credo proprio fosse un ragno. È andato verso ovest” confermò lui.
Layla prese fagotto e stivali e corse nel santuario da Majnun, che nel frattempo era tornato in apparenza umano e con le ferite rimarginate.
“L’abbiamo trovato” disse porgendogli i suoi averi.
Majnun sollevò la testa, negli occhi ambrati c’era una domanda muta. “Ovest” sorrise “andiamo ad ovest”.