Mancanza - Racconto
Una discrepanza tra il blu della notte e l’arancio dell’aurora. L’uomo scivolò tra un vicolo e l’altro, intento a raggiungere il parchetto di innumerevoli pomeriggi passati insieme. Si stringeva nella giacca di jeans, sebbene la torrida afa estiva presto lo avrebbe costretto a spogliarsi e a lasciar andare l’ultimo ricordo di lui.
«Compri?»
Per un attimo indugiò di fronte alla signorina appoggiata a un muretto, quasi non avesse compreso la domanda. Poi, sollevò il mento e si allontanò. La ragazza lo mandò a quel paese, ma non gli interessò. Era superiore alle tentazioni offerte.
Qualche secondo davanti al distributore, monete che tintinnano a terra perché sputate fuori a tutta velocità, e col tramezzino infilato in tasca riprese il viaggio. Nella sua situazione raccogliere i centesimi era inutile, se non per avere le sigarette. Si perquisì per cercare il pacchetto, sperando che non fosse vuoto. Un colpo al cuore e un nodo alla gola lo colsero, facendogli desiderare di esserne rimasto a secco.
Erano le preferite del suo compagno, Diana rosse.
Quanto le detestava.
Il parco era poco distante da vari luoghi di ritrovo, un posto definito a metà tra lo speranzoso e lo squallido. Se i bambini andavano a giocare lì col favore del sole, gli adulti finivano per drogarcisi al chiarore della luna.
L’uomo si chiese chi lo visitasse all’alba.
“Gli assassini” si rispose, ghiaccio nelle vene.
Niente oasi. Soltanto vari arbusti incolti, divenuti latrine di cani e siringhe usate, e una decina di alberi non potati, così brutti da non sapere se fossero in procinto di seccarsi o piegarsi in due per il peso di rami e fogliame. Un piccolo polmone nel grigiore della città. Per chi non poteva permettersi altro se non un viaggio in bus alla città di fianco, era qualcosa di più.
Per loro si trattava di Noboribetsu, della sua foresta primordiale.
Secondo le parole degli altri, si mutava per sempre dopo situazioni drammatiche. Però, quando si guardò intorno, notò che il mondo filtrava uguale attraverso i suoi occhi. Nonostante il crimine commesso la Terra girava, il cielo schiariva, il paese si risvegliava, e lui se ne stava con la giacca ancora indosso a decidere se fumare o meno. Se avere l’alito che puzzava come quello del suo ragazzo, con il pacchetto acquistato da lui, o farne a meno.
Poteva tenersi un bacio d’addio per momenti migliori.
Si sedette solitario sulla panchina e s’accese la sigaretta rimasta con un ghigno sottile sulle labbra, uno di quelli che lo immortalavano come il tipico stronzo di turno nelle fotografie. Insomma, cosa credeva di poter fare, darsi alla macchia?
Non era mica Motisi.
Facendo un tiro, e con la luce del giorno a favorire rispetto le tenebre, notò come gli fosse rimasto del sangue sotto le unghie. Si era lavato le mani più volte e s’era cambiato d’abiti, prendendone in prestito, ma se si guardava attentamente trovava macchie qui e là. E, sarà stato lui, ma c’erano minimo quella ventina di gradi eppure il gelo gli pungeva le guance. Le colorava di rosa, probabilmente, come quelle delle ragazzine di fronte alle prime esperienze.
Ripensandoci, un tempo anche lui era stato così.
Una boccata di fumo e d’un tratto, lì davanti, un cane come tanti. La bestiola se ne stava seduta tranquilla, con la coda che andava di qua e di là, in attesa. Non poteva crederci, era uno di quegli animali pieni di pulci che al suo fidanzato piacevano tanto. Che erano piaciuti, tanto.
Non si sarebbe mai abituato al diverso tempo verbale.
«Sì, ciao, ma ora vattene.»
L’animale lo guardò. Piccolo e dal pelo grigiastro, un tempo bianco. Gli occhi neri erano rotondi e lucidi, dei bottoni, così come il naso. Se lo si guardava distrattamente, per via della misura identica, si potevano confondere con tre pupille fisse che scrutano nel profondo. Ma nelle serie tv che guardava con il suo amato si parlava di corvi, non di cani. C’erano pure lupi nelle vicende, ma quello somigliava più a uno di quei bastardini scaricati per poter andare in vacanza con un peso in meno.
Probabilmente lo era.
«Cosa, aspetti uno Scooby Snack?»
Il cane piegò la testa di lato, come avesse inteso almeno alcune delle parole pronunciate. Senza che l’umano gli disse altro zoppicò fino alla panchina e si distese accanto, come a cercare conforto e tranquillità. Lui, di tutta risposta, si strinse nella giacca di jeans.
La bestiola l’annusò.
«Ah, giusto. Sarà che vuoi questo.»
Scartò il tramezzino dell’automatico e lo divise a metà, un boccone a lui e uno all’altro affamato. Il panino era terribile, con la carne che sapeva di rancido, ma tornò indietro comunque. Sopra di loro, Noboribetsu si tingeva del colore del giorno e gli alberi colmi ondeggiavano al volere dello Scirocco. Era un po’ come stare con il suo ragazzo, a fantasticare di perdersi nella foresta primordiale colorata d’ambra. A parlare dell’autunno, mangiando un biscotto preparato da lui.
Quel pensiero unito al vento gli provocò i brividi, quindi si alzò il colletto e provò a non pensare a nulla. Finì per chiedersi cosa stesse facendo quel randagio da quelle parti, perché proprio lì e a quell’ora, poi notò il muso sporco di un colore che conosceva bene. Lo stesso cremisi secco, a grumi e dall’odore metallico che aveva lui sotto le unghie.
“Lo frequentano…”
L’uomo finì per accarezzare l’animale, ponendo attenzione a non farsi ringhiare di rimando. Il cane non poteva esser definito un assassino, era sporco perché aveva finito per mangiare una carcassa di qualche gatto investito o al limite si era sporcato nel lottare per la sopravvivenza.
Invece lui, che scusa aveva? Perché aveva compiuto quel gesto terribile?
Amava il suo fidanzato, non ne aveva dubbi. Forse era stato tutto per colpa dell’amore, per rabbia, o un’accozzaglia di entrambi. Tra quella confusione emotiva, aveva chiara in mente solo l’immagine finale della persona amata: se chiudeva le palpebre, poteva ancora vedere.
Passava la mano sul randagio, ma con il cuore si trovava nell’appartamento del ragazzo che amava. Concentrandosi vedeva tutti i ninnoli sparsi per la stanza, le sculture etniche riportate dalla madre dai viaggi, persino l’effluvio delle candele comprate a poco per non far puzzare la stanza come una saletta fumatori. «Puzza come in una congrega di streghe» diceva loro quella donna, fin quando era stata in vita.
Saltò tutta la discussione, ritrovando l’attimo migliore, il ricordo più limpido.
Il coltello l’aveva penetrato dolcemente da dietro, come per un gesto intimo o una coccola fatta prima di andare a dormire. Lo aveva pugnalato a sorpresa, all’altezza dei reni, con una mossa priva di parole. A tradimento, si direbbe, ma nella realtà dei fatti non aveva tradito nessuno. I suoi sentimenti erano puri, sinceri.
Non più ricambiati.
Sangue caldo a fiotti, l’esistenza che si spegne. Era quello il punto in cui tutto mutò per davvero, quando quel tepore che aveva pervaso il futuro assassino e gli si era riversato addosso appiccicandogli i vestiti alla pelle. Da allora il freddo non l’aveva più lasciato, come se qualcosa si fosse spento dentro di lui: il suo amato non era ancora morto, ma il fatto di esser giunti fin lì era stato abbastanza. Un destino già scritto.
Si chiese se avesse mai provato un calore simile in vita sua.
Quando cadde a terra gli montò sopra, tanto per variare la dinamica. Premette le mani attorno al collo dell’altro e si avvicinò con il viso, tanto da avvertire l’odore delle Diana rosse mentre esalava l’ultimo respiro. Sul volto di lui il sorriso, quello che di solito rischiarava la tristezza della vita trascorsa in un paesino bigotto e compariva pensando alla foresta primordiale, per la prima volta era storpiato in una smorfia.
Per l’unica volta, su di lui.
Ebbe un brivido e questo lo riportò alla realtà, una in cui quella sensazione di bollore non apparteneva che ai ricordi più belli. Al momento in cui la lotta era finita lasciandolo nella stessa stanza con la consapevolezza, armata di silenzio, e con il corpo del suo fidanzato arreso.
Il cane finì di mangiare, scese dalla panchina con un balzo e gli rivolse uno sguardo con le sue tre sfere nere. Un breve scodinzolare, giusto per indicare che aveva apprezzato, poi si allontanò zoppicando. L’uomo si ritrovò a stringere un pugno di peli sporchi e gettare il filtro della sigaretta a terra, a schiacciarlo con il piede, mentre l’animale scompariva tra gli arbusti.
Si strinse più che poté nella giacca per combattere il sentore arido che gli mordeva le ossa, tanto da fargli sbattere i denti. Il parco, illuminato da una luce distante, rivelava la sua vera natura: quella che tutti gli altri avevano sempre avuto sotto gli occhi, e lui aveva finto di non vedere perché pensava di essere altrove.
Solo latrine per bestiole, qualche albero in croce, siringhe usate.
E una giacca di jeans abbandonata.