Pigna - Racconto
«E ora cosa Cristo è questa merda?».
Un contenitore di metallo ruzzolò giù dalla gradinata, fermandosi tra le gambe del tavolino ed il piede di chi vi stava seduto.
«Ma con chi ce l’hai?», un uomo, uscendo dal bar.
«Hai pagato?» rispose quello seduto.
«Sì, sì. Rilassati, ho detto che offrivo io, no?».
L’uomo seduto grugnì, chinandosi a raccogliere il contenitore metallico.
«Allora con chi ce l’avevi prima?» insistette quello in piedi.
Quello seduto si limitò a gettare la scatola sul tavolo, aggrappandosi poi ai braccioli della sedia fissando l’oggetto con cupidigia manifesta sotto sembianze di laconico sorriso.
«Tu non stai bene, Timberman».
«Vaffanculo, Aziz».
«La prossima volta offritela da solo la birra».
Timberman scattò con le braccia sul tavolo, affusolando il busto su di esso protendendosi tutto verso la scatola, ora stretta nella morsa delle dita tozze.
«Voglio vedere che c’è qua dentro. Senti?» scuotendo la scatola.
«C’è qualcosa, magari di valore, così smetterai di rompermi le palle per una birra e te ne offro io due, chissà».
Aziz si avvicinò, osservando accigliato il contenitore, il quale veniva ripetutamente rigirato, rivoltato e sondato dagli avidi polpastrelli di Timberman.
«Guarda qui» disse Timberman, mostrando ad Aziz il lato stretto del contenitore, «è da qui che si apre, c’è questa scanalatura». Le dita lisciavano ossessivamente la sottile fessura tra il metallo.
Aziz, si chinò, osservando da vicino ove le dita dell’altro accarezzavano con più insistenza.
«Per me» esordì, «non la aprirai mai».
«E tu che cazzo ne sai?» ringhiò Timberman.
«Guardala, guardala bene anziché toccarla come fosse il culo di una di quelle poveracce a cui allunghi il centone ogni settimana».
«Tua sorella!» ringhiò Timberman, ritraendo la scatola a sé, stringendola al petto.
«Ti piacerebbe, per venire con te chiederebbe almeno il doppio. Ma guarda lì» protendendo l’indice affusolato in direzione della scatola, «è piegata la tua adorata fessura. Quella non la apri mica sai?».
Timberman si alzò di scatto, la sedia ondeggiava alle sue spalle.
«Vorrà dire che me la apro io! E a te non spetterà un cazzo di ciò che ci trovo! Sta bene?» gracchiò roco, ingobbendosi sul contenitore stretto fra le braccia.
Aziz scrollò le spalle, ritraendo il dito fino a metterselo in tasca.
«Fa come ti pare, io non intendo perderci tempo, è solo spazzatura, vedrai».
Timberman volse in direzione della gradinata, la scatola ora portata innanzi gli occhi.
«Sei più fuori di un ramo, sappilo. Se quella roba avesse avuto qualche valore, di certo non l’avrebbero gettata dalle scale», il commento di Aziz, prima di volgere in direzione opposta, «ci si vede».
Timberman posò il mento sulla spalla, il cupo sorriso a martoriargli il volto.
«Berrò alla faccia tua» compiendo un cenno col capo verso le spalle di Aziz.
Tornato al proprio intento, Timberman s’affrettò lungo la gradinata. Dopo poche alzate ebbe una singolare sensazione di pesantezza. I piedi rallentarono, come camminasse dentro un fluido viscoso ma intangibile. A metà gradinata l’aria era talmente densa da sembrare solida. La vista offuscata come un in un banco di nebbia, ma solo un istante. Due gradini dopo, la sensazione era solo uno strano ricordo che pendeva solamente dai talloni e dalla schiena.
«Aziz e quella merda di birra da due soldi, ho già i capogiri» borbottò da solo, raggiungendo la sommità della scalinata, «tempo di aprire il mio tesoro e corro e rifarmi il palato».
Riprendendo fiato posò scatola e braccia sulla balaustra che affacciava sulla strada sottostante. L’avido sorriso tornò lesto a squarciargli il volto mentre fissava la fessura piegata fra le dita. Con la piega del metallo a pochi centimetri dagli occhi prese la rapida decisione: si rimise dritto con legnosa prestanza, braccio rigidamente teso e dita ben salde attorno alla scatola, come radici aggrappate alla roccia. Collo rigato dai tendini tesi, muscoli contratti, spalla roteante e la scatola si abbattè con violenza sulla balaustra.
Un colpo.
«Ma chi».
Due colpi.
«Cazzo è».
Tre colpi.
«Quella merda».
Quattro colpi.
«Che l’ha piegata».
Cinque colpi.
«Così per chiuderla!»
Sei colpi.
Uno sbuffo, altri due colpi.
Al non colpo il metallo cedette.
«Oh! Finalmente ti sei aperta, maledetta!».
Timberman ansimava di soddisfatta ferocia. Insinuò un dito nel pertugio che aveva aperto nella chiusura piegata, mise un secondo e fece forza. Finalmente la scatola metallica si sbloccò, schiudendosi come un’ostrica, rivelando la sua munificente perla rara.
«Ma cosa cazzo!» gridò Timberman. Il sorriso sul volto sostituito da una smorfia di puro odio.
«Pigna! Una cazzo di pigna! Ma cosa cazzo ci faccio con una pigna di merda?».
In lontananza gli parve di udire una voce lenta, contratta, ovattata.
«Aziz! Quel maledetto, è ancora là che aspetta di godersi la pigna! È stato lui a mettercela, lo sapeva!» ringhiò stringendo la pigna fra le dita.
«Ma ora gliela do io la sua cazzo di pigna».
Lanciò con forza la pigna nuovamente nella scatola, gettò a terra il contenitore e lo richiuse sotto pesanti pedate, piegandolo nuovamente.
«Volevi lasciarmi la scatola con la pigna? E ora te la do io la scatola, e che ti arrivi in test, maledetto», raccogliendo la scatola da terra e scagliandola verso la gradinata, infrangendosi contro il muro di aria densa, attraversando quel limo di atmosfera ovattata dalle voci distorte, ricadendo infine al suolo, in fondo alla gradinata, da dove trapassavano solo voci lontane, distorte, come un déjà-vu.
«E ora cosa Cristo è questa merda?».