Sigarette - Racconto
Luce. Tanta luce. Troppa luce. Luce bianca che mi penetra gli occhi come il bagliore di una vecchia tv la cui antenna si è scassata, proiettando neve catodica. La cosa strana è che non mi viene da socchiudere gli occhi, non dà fastidio. Non so dove sono e come sono finito qui. Alzo le spalle, tiro le labbra in quella specie di sorriso disilluso e penso: “Sai che novità…”. Ho la faccia di uno che ha scorreggiato in ascensore e deve far finta di niente, so che dovrei, ma non riesco a scrollarmi via questa smorfia. Solo che qui non c’è puzza. Non c’è niente di niente, nemmeno da sedersi, solo luce bianca. Bella merda.
Sento un fastidio che mi sale lungo le braccia, una scossa elettrica, mille ragni che si spingono nelle mie vene e allora mi metto a camminare. Passeggiare. Vagare nel bianco. Le suole delle mie scarpe da ginnastica fanno skreek skreek sul pavimento di marmo bianco che non si riesce a distinguere dai muri e dal soffitto. Sembra una di quelle case degli specchi al luna park che se non metti le mani avanti ti rifai il setto nasale, e di certo non in meglio. Sarebbe in effetti divertente imbrattare tutto con un po’ di sangue misto ad alcol, un Jackson Pollock di noialtri giusto per il gusto di rovinarlo, o renderlo un po’ meno fastidioso questo dannato biancore.
“Cosa credi, di essere migliore di me?” La mia voce risuona da sopra, da sotto, da destra, da sinistra, da dentro. Fa vibrare il tessuto sgualcito della mia camicia a quadri. Sento l’assoluto bisogno di accendermi una sigaretta, ne addento una e la tiro fuori dal pacchetto morbido e comincio a tastarmi: davanti, dietro, sul petto. Mi tocco, mi frugo, mi sfrego, ed ecco l’accendino, l’unica cosa bella qui. Sfrinz, sfrinz, sfrinz, l’accendino scintilla ma la fiamma non si accende. Ed ecco il mio muso schifato che ritorna. Al quarto tentativo riesco ad avere il fuoco e lo avvicino al tabacco, che sembra rifiutarsi di bruciare: è bagnato! Torno a tastarmi per capire se mi sono pisciato addosso, sono cose che succedono quando la lancetta dell’etanolo segna il pieno, ma i jeans sono asciutti. Fumare una sigaretta bagnata, se si riesce a farlo, è soddisfacente come andare al cesso senza il telefono: ti ritrovi a leggere le etichette dei detersivi cercando di fartelo andare bene. Due tiri, questo è il massimo della pazienza che posso dedicare a questa attività insulsa. Sparo la sigaretta con un movimento del pollice e del medio e lei scatta come una molla, sbattendo prima contro il muro bianco e liscio, per poi accasciarsi a terra. La guardo da sopra come farebbe uno sbirro alla vista dell’ennesimo cadavere di un tossico in overdose.
Continuo a camminare avanti, verso il muro opposto, continuando a produrre rumore con le mie scarpe: skreek skreek skreek. Qualcuno ha una risposta perché fanno così? Tocco il muro e metto la fronte sui dorsi delle mani. Sospirando, lascio andare tutto il mio peso e cazzo! Il muro sembra collassare, mi sento cadere in avanti, è una porta, una fottutissima porta! Inciampando mi ritrovo in uno studio scuro dominato dal rosso e dal marrone del legno. File di candele a destra e sinistra percorrono una stanza troppo grossa per essere un ufficio. Da dietro una poltrona con lo schienale alto e rosso vinaccia sento una voce, non capisco se sia un uomo o una donna, che dice con un tono: “Ce ne hai messo di tempo eh?”.
Rimango in silenzio a guardare il retro dello schienale parlante e poi rispondo con la sfacciataggine dell’ubriacone: “Anche tua madre mi ha detto la stessa cosa”. Ride, ride, ride, in crescendo. È un uomo. No, adesso è una donna. No, è diventato un bambino. Si accende una sigaretta, e sputa il fumo verso l’alto, sempre rimanendo girato o girata, che ne so. Dopo un altro tiro decide di fare la sua mossa: “È un po’ che ti osservo, sai?”.
Sono confuso e strizzo gli occhi, vorrei tanto girare quella maledetta poltrona e vedere chi si sta divertendo dall’altra parte, ma mi tocca stare al gioco. Posto suo, regole sue. La mia mente malata mi suggerisce di continuare con lo stesso ritornello: “Anche tua madre mi ha detto la stessa cosa”. La poltrona sbuffa un’altra boccata di fumo e poi riprende: “So che sai fare meglio di così. Sai chi sono io?”. Più guardo il fumo e più vorrei strappargli la sigaretta di mano direttamente con i denti giusto per gustarmela io, deve essere una di quelle chic, mica la merda bagnata che ho nel mio pacchetto.
Mi appoggio allo stipite della porta che separa lo studio del fantasma da quell’irrealtà bianca e schioccando la lingua gli faccio capire che no, non lo so. La poltrona rimane ferma e zitta per il tempo che ci vorrebbe per finire quella stramaledetta sigaretta. Sospira. “Sei morto, Oleg, mi dispiace”. Sono io adesso che rido: “Morto? In che senso morto? Mi stai prendendo per il culo?” mi gratto la barba incolta.
“E tu quindi chi saresti? Dio?”. Sento un brivido quando pronuncio queste parole. Ironico, fai di tutto nella vita per ammazzarti, e quando ce l’hai fatta, te la fai sotto. Il fantasma ribatte: “Se pensi che io sia Dio, diciamo pure che io sia Dio”.
Modesto, non c’è che dire. Comincia a dire qualcosa, ma io non lo ascolto più, non ne ho la voglia, vorrei solo una sua sigaretta. Sarebbe così facile chiedergliela, ma non ce la faccio: all’improvviso mi mancano le forze, la voglia di aprire bocca. Dopo tanto bla bla bla sul senso della vita sento le ultime parole che dice: “Dimmi perché non dovrei mandarti all’inferno”. Tiro l’aria tra un incisivo ed un canino per far volare via un pezzetto di salame che aveva avuto la bell’idea di salvarsi dal mio stomaco. Per il resto, non ho niente da dire.